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giovedì 4 agosto 2016

Quel pozzo di “veleni” a San Fele, viaggio tra le trivelle dimenticate (e mai bonificate)

Brevissima storia della piattaforma Texaco in provincia di Potenza. Realizzata nel 1994 e subito chiusa. Mai bonificata, da vent’anni pare crei danni al territorio e agli allevamenti.

POTENZA – ”Per un pò hanno portato lavoro. E mentre lavoravano non hanno dato fastidio. Poi se ne sono andati subito. Ma chi erano?”, si chiede Carmine Sperduto, contadino di 94 anni.
Abbronzato, in gran forma, Carmine è il vicino di casa di un emblema: un pozzo esplorativo per l’estrazione del petrolio costruito e subito chiuso dalla Texaco tra il 1992 e il 1994. Nel bosco di San Fele, provincia di Potenza. Due anni di lavoro e dieci mesi di attività per un nulla di fatto: dopo aver sbancato la collina, costruito le vie d’accesso, le vasche per la raccolta del greggio, perforato il terreno e creato una pista per l’atterraggio degli elicotteri l’azienda Saipem, contrattista per la prospezione, chiuse la piattaforma. Abbandonandola in fretta e furia. E dopo più di vent’anni è ancora là, a fare da intrusa nel panorama magnifico delle coste del vicino Monte Santa Croce.
Siamo a quasi milletrecento metri di quota. Negli altipiani intorno al bosco pascoli di vacche podoliche, placide e sonnecchianti al sole. In primavera un tappeto di fiori e verde intenso avvicina il posto a una fedele rappresentazione dell’eden. C’è chi, come Carmine, si chiede cosa ci faccia una piattaforma petrolifera in questo eden:
“Di notte c’era un traffico continuo di camion e uomini. Non hanno creato troppi problemi, ma la mia sorpresa è stata un’altra: tutto quel lavoro per nulla. Perchè?”.
La risposta è davvero nel vento. Che qui la fa da padrone, in molti sensi.
Ad esempio, quello delle possibilità. Letteralmente buttate all’aria. Il comune di San Fele, come molti della Basilicata, a cavallo degli anni ’90 concede vari permessi di prospezione (in questo caso il nome in codice è Monte Caruso).
In pratica dà la possibilità alle ditte di fare sopralluoghi per verificare la presenza di petrolio nel sottosuolo. In ballo decine di posti di lavoro: perciò l’accordo con Texaco è raggiunto presto. Così come i lavori di costruzione del sito. Tutto veloce, anche le trivelle. Sotto il Santa Croce la Saipem arriva oltre i 5300 metri di profondità. Il greggio c’è ed è a poca distanza. Dicono neanche mezzo chilometro.
Ma all’improvviso l’azienda denuncia un deficit di tecnologia: nonostante gli acidi che sciolgono le croste a un certo punto la punta si piega. Non va più dritta. Niente da fare, bisogna lasciare il posto. In fretta e furia. Entrambe sospette.
“Come mai non ci hanno provato ancora?”.
Sergio Ricigliano oggi è consigliere al comune di San Fele. All’epoca era uno dei quaranta ragazzi del paese che benificiò del lavoro offerto da Texaco. La sua esperienza descrive una dinamica precisa:
“Pagavano in tempo e tutto si svolse con regolarità. Infatti fu una delusione sapere che dopo poco bisognava rinunciare all’impiego”.
Il sindaco di San Fele si chiama Domenico Sperduto. Oltre che primo cittadino è panettiere (prodotti ottimi, ndr) e, forse per questo, sa cosa significa l’integrità di un territorio: “Il pozzo Texaco è un simbolo: ci ricorda quanto è importante difendere le nostre montagne dalle aziende che promettono senza mantenere”.
Ma il suo non è pregiudizio:
“Se il petrolio è davvero il futuro di questa regione ci vogliono garanzie. Sovrastrutture, ricerca, sanità”.
Salute, insomma. Perchè il vento non sia di morte: “L’impegno era quello di ripristinare la morfologia della zona. Non è accaduto. La collina è diventata un altipiano”, protesta Leonardo Di Leo, un abitante del borgo. La collina che diventa altipiano, infatti, non causa danni solo all’estetica originaria: impedisce pure lo scorrere naturale delle acque. “Con frane e inquinamento dei terreni a valle. Tutti documentati”, incalza Di Leo.
Secondo la OLA, Organizzazione Lucana Ambientalista, i lavori hanno sporcato le numerose falde acquifere e le sorgenti presenti nell’area di estrazione. Il documentario “La testa nel pozzo”, del 2013, racconta i disagi degli allevatori a seguito della mancata bonifica.
“Emerge un’inquietante sostanza di colore bianco di natura non identificata”, dice Antonio Bavusi, titolare di un’azienda zootecnica.
Un vascone ai margini della piattaforma raccoglie le acque di raffreddamento dei motori in prossimità del pendio: col tempo, dai teloni sommersi sono spuntati piante acquatiche dall’aspetto sinistro. Nel frattempo si parla di un curioso aumento dei tumori in una località che di solito sta piuttosto in salute. Sette gli ultracentenari su 3000 abitanti, mentre ottantenni e passa sono la maggioranza della popolazione. Un’altra associazione ambientalista, Un muro contro il petrolio, si chiede: “Chi ha monitorato negli anni questi pozzi definiti sterili? Dove sono stati sversati i fanghi di estrazione?”. Domande toste. Anche per un vento che la fa da padrone.


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